Qualche giorno fa sono inciampata in un reel del Messaggero che recitava:
Trad-wife, il trend delle mogli tradizionali che vogliono prendersi cura della casa e della famiglia spopola su TikTok.
Lo confesso: non ho potuto fare a meno di sentire un immediato e viscerale rifiuto nei confronti di questa narrazione a base di biscotti fragranti, messe in piega cotonate e soprattutto di sistematica (e omertosa) occultazione delle dinamiche soggiacenti al teatrino dalle tinte vintage allestito dalle sopracitate sui social.
Eppure, nonostante l’istintivo rigetto, mi sono imposta di fare un passo indietro.
La ricerca della catarsi: le pulizie come rito magico di purificazione
Qualche tempo fa, nel bel mezzo del mio medioevo professionale, ho avuto delle giornate così buie che francamente tutto quello che riuscivo a portare a termine mi sembrava - nonostante gli sforzi del caso - inutile.
Registravo episodi di podcast, inviavo newsletter, spuntavo liste, strappavo pagine di quaderno con sopra scritti svariati elenchi di buoni propositi, per poi ritrovarmi supina sul divano a chiedermi “perché lo fai? Non vedi che è tutto inutile?”.
Al che accendevo la Tv, sgranocchiavo patatine e guardavo la Signora Maisel superare i suoi limiti. Evadevo. Osservavo qualcuno che poteva raggiungere i propri obiettivi al posto mio.
In quei giorni, già che ero in casa a non fatturare, mi sono dedicata alle pulizie con più dovizia del solito.
Non che provassi piacere nel farle - mai sperimentato il brivido che riportano alcune nello stirare le federe - ma almeno in quei momenti mi sentivo utile, produttiva.
Per di più potevo dare retta al mio ritmo circadiano e svegliarmi alle otto, non c’era alcun cartellino da timbrare o cliente da incontrare.
Poi un giorno, mentre passavo l’aspirapolvere, mi sono sorpresa a pensare “ma sarebbe davvero così male farlo a tempo pieno?”.
Mi vennero i brividi.
Nonostante ciò mi concedetti qualche secondo per analizzare l’opzione.
Addio ansie accessorie
Se fossi diventata una casalinga, avrei lasciato alle mie spalle le ansie dovute a lanci imminenti o alle vendite sotto le aspettative. Niente più campagne di marketing dai ritmi serrati, chiamate con il commercialista o eventuali trasferte.
Avrei traslocato dal mondo del dire a quello del fare, e in pochi avrebbero notato la differenza.
Potevo, almeno per un po’, solo esistere.
Mettere a tacere le ambizioni, spazzare via le angosce esistenziali intrappolandole tra le fitte e magnetiche trame di un panno Swiffer.
Che sollievo!
Magari poi (a una certa le pareti stringono e sento la necessità di comunicare), avrei iniziato a condividere online il modo in cui mandavo avanti una casa con dentro un cane che come professione ha quella di annullare sistematicamente ogni mio sforzo di ordine e igiene.
Magari avrei persino imparato a cucinare qualcosa di più sofisticato di un minestrone di zucca e porri.
Magari.
Il dietro le quinte
Te la faccio breve: la questione è che avrei fatto qualsiasi cosa pur di sfuggire a quel senso di vuoto e pressione che mi aveva generato il mio lavoro.
E il peggio è che non stavo scappando da un ufficio in cui subivo mobbing o sopportavo orari improbabili: volevo fuggire da me stessa e da quello che avevo costruito.
Fintanto che restavo chi ero, non avevo scampo.
Cercavo un nuova identità attraverso un’altra occupazione, e non essendo in quel momento in grado di capire come costruirmi un’alternativa, avrei volentieri aderito ad una realtà preconfezionata e facilmente accessibile.
Motivo per il quale trovo - per quanto legittima nell’ottica del “ciascuno fa ciò che vuole con la propria vita”- particolarmente dannosa la retorica online della housewife felice e soddisfatta di piegare le lenzuola e fare il pane di massa madre.
Partendo dal presupposto che ciò che si vede online è una versione parzialissima della vita di un individuo, decidere di costruirsi un’identità digitale e professionale attorno al concetto di moglie (patriarcalmente parlando) perfetta supplisce di per sé a una delle principali carenze che comporterebbe adottare nella realtà dei fatti il modello proposto: una fonte di reddito propria.
Lo spiego in una prosa meno ciceroniana (ho scritto cinque righe senza un punto, mea culpa prof) e più comprensibile: se hai successo come influencer puoi monetizzare le attività più disparate, persino il tuo lavare i pavimenti, riordinare il salotto, dare forma ai cuscini, aiutare la prole con i compiti.
C’è di più.
Oltre al denaro, trovi persino la validazione che cerchi attivamente tra le pareti di casa pure nel tuo pubblico dall’altra parte dello schermo, desideroso di:
a) se XX: fuggire dalle proprie frustrazioni professionali e scendere dalla giostra infernale aka società della performance.
b) se XY (di tipo cis etero basic): capire come procurarsi un tuo esemplare e non dover mai più toccare un detersivo per i piatti in vita sua.
In parole povere, tu tradwifeinfluencerdelpulito costruisci un ecosistema sulla base di un desiderio che, se soddisfatto offline, si riduce ad essere quello che essenzialmente è: una dipendenza dallo stipendio del proprio consorte, disposto (se nelle condizioni di farlo) a nutrirci e metterci un tetto sopra la testa a patto di occuparci a tempo pieno di dimora e progenie.
L’ombra dell’idealizzazione
Tuttavia questo discorso si sposa bene con pressapoco qualsiasi tentativo idealizzazione: non tutto è oro quel che luccica, e forse, prima di dare le dimissioni e avviare una routine a esclusivo tu per tu con Mastro Lindo, sarebbe il caso di domandarsi se quella della casalinga sia una reale alternativa alla vita da salariata.
Io credo vada vista per quello che è: un’attività molto impegnativa dalle quali molte delle nostre nonne sarebbero fuggite volentieri, resa glamour da una manciata di abilissime creator che sanno usare storytelling, tripode e CapCut persino meglio di scovolino e battipanni.