Il 31 luglio del 2023 ho ufficialmente messo fine alla mia dieta flexetariana escludendo dal piatto qualsiasi tipo di pietanza che includesse carne o pesce.
È stata una decisione ponderata negli anni, che ho rimandato a lungo per ovvi motivi.
Tuttavia, una volta presa, non ci sono state eccezioni.
Qual è stato il mio arciduca Francesco Ferdinando, ciò che ha decretato l’irreversibile evoluzione degli eventi?
Lui:
Dante, il mio cagnolone dal naso rosa e le ciglia a ventaglio, il perfetto mix tra un maiale e una vitella (ma con la grazia intrinseca di un ippopotamo).
Da che è arrivato nella mia vita (per volontà di marito, io always been una gattara convinta) non ho potuto fare a meno di vedere il suo muso ovunque: nel macinato, negli hamburger, nella mortadella tartufata.
Quando dico ovunque è OVUNQUE.
Ma procediamo per ordine.
In questa lettera voglio parlarti di due cose.
La prima è come sono arrivata ad abbracciare la scelta.
La seconda è la parte più difficile di averlo fatto, il lato oscuro, il rovescio della medaglia.
Spoiler: non si tratta di aver coscientemente rinunciato al jamón serrano sul burro fuso della tostada.
L’evasione
Parto da qui: fatta eccezione per quando ero molto piccola e la mia nonna paterna mi cucinava manicaretti degni dello spell book di Hocus Pocus (coratella, trippa, cervello, occhi e lingua d’agnello etc.) che mangiavo più che volentieri, dall’adolescenza in poi non ho mai avuto una particolare predilezione per la carne, né tantomeno per il pesce.
Complici due fattori: il primo è che mia madre ha sempre detestato la carne (non si è mai dichiarata vegetariana e ha cucinato carne e pesce per noi ogni settimana, ma quando lo faceva storceva il naso, e se le era possibile in macelleria ci mandava qualcun altro), il secondo è un evento traumatico che fatico a dimenticare.
Fino ai sedici anni ho vissuto sotto casa dei miei nonni paterni (quelli degli occhi bolliti + cervellino alla brace, per capirci).
Nonno aveva un piccolo allevamento di conigli in un prefabbricato alla fine del giardino, tutti tenuti in gabbie non esageratamente anguste.
Figliavano con una certa frequenza.
Quando nascevano i coniglietti, me ne faceva tenere in braccio uno.
Gli assegnavo un nome, portavo trifogli da sgranocchiare, infilavo il dito tra le grate nella speranza di riuscire a toccarne la pelliccia soffice (rischiando di perderlo nell’operazione di contatto. Le madri non gradivano l’intrusione, o forse scambiavano il mio indice per una carota baby, chissà).
Un giorno ne ho pianificato l’evasione, sua e dei cugini, riuscendo nell’intento.
Il giardino è stato invaso da una ventina di roditori felici e increduli, prontamente riacchiappati per la collottola dal patriarca infuriato e restituiti alla prigionia fino alla data dell’esecuzione.
Esecuzione che, a una certa, ho intercettato.
La bacinella blu
Era una mattina di dicembre, mi ero svegliata molto presto per poter partecipare alla novena insieme a mia madre.
Nonno non lo sapeva, che alle sette sarei stata nel portico.
Lui era lì, accanto al fico, che legava il condannato di turno per le zampe posteriori ad un ramo robusto. Sotto c’era una bacinella blu, lì per raccogliere il sangue che altrimenti avrebbe lasciato traccia sul terreno brullo.
Ricordo di aver gridato, di aver colto la sorpresa negli occhi del boia e il terrore in quelli del malcapitato, che si agitava come un forsennato e provava inutilmente a svincolarsi.
Al prete quella mattina ho detto che mio nonno era un assassino.
Don si è preoccupato, e ha chiesto in casa a cosa mi riferissi.
È stato prontamente rasserenato.
Si trattava solo di un coniglio.
A pranzo ho aperto il freezer e trovato il cadavere. Era già stato squartato e diviso in pratici sacchetti di plastica.
Fine del conillu a succhittu.
Il turno dei cuccioli
Progressivamente, ho iniziato a dire di no a qualsiasi animale di cui potevo riconoscere la forma.
Niente maialetto (“cummenti no bollis pappai su proceddu? Ma itta sesi, ammacchiendiriri!?”) e niente agnello — anche lui gruppo cuccioli.
Acconsentivo esclusivamente se si trattava di carne macinata e/o impanata (l’unica che mi permetteva di ingannare le sinapsi).
Mangiavo spinacine, cotolette, polpette, e ogni tanto — se mi obbligavano — qualche fettina di vitella.
I nervi mi facevano uscire di testa dallo schifo.
“Levali col coltello” , “lì c’è ancora un sacco di carne”, “te la sistemo io, ma la devi finire”.
Ricordo ancora l’ultima volta che ne ho mangiato una.
È stato il giorno dopo il mio addio al nubilato, a Roma, in casa di mia zia.
“Sei anemica, ti fa bene”.
Non sono riuscita a scansare la premura.
Ho masticato un boccone alla volta, respingendo i conati e cercando di non pensare alle ciglia di quel povero animale che mi stavo spingendo nello stomaco.
È rimasto il sughetto sul piatto. Era sangue misto a olio EVO.
“Ma neanche i pesci?”
In passato avevo pensato che, caso mai fossi davvero voluta diventare vegetariana, avrei aggiunto uno step intermedio: no carne, ma sì pesce.
I pesci non hanno le ciglia.
Ci ha pensato Osaka a farmi fare all in.
Passeggiavo con marito per le vie della città giapponese. A una certa, ci siamo fermati davanti a un ristorante di sushi con una vetrina piuttosto scenografica, un veliero in rilievo che solcava i mari in tempesta.
Ho guardato dentro: c’era una grande vasca, piena di pesci di dimensioni medie. Un bambino ne stava acchiappando uno con una retina verde.
Il pesce si è agitato a lungo, scuoteva la coda, rimbalzava da lato a lato.
Ricordava il coniglio.
Il “pescatore” esultò trionfante più volte.
Infine consegnò la preda al padre, che a sua volta la lasciò a chi, con un colpo secco di coltello, l’ha decapitata, desquamata e trasformata in nigiri.
La sera ho ordinato un ramen vegano.
Fuori dalla caverna
Sarebbe passato un mese tra quell’evento avvenuto in luna di miele e la mia decisione di sospendere permanentemente carne e pesce dalla dieta.
Prima ho dovuto fare una passeggiata per il super, passare per la zona jamones (qui in Spagna ne hanno una apposita), e guardare i prosciutti con occhi diversi.
“Quello non è un prosciutto” ha bisbigliato la mia nuova coscienza “guardalo bene: è una coscia, con zoccolo annesso”.
L’odore, lo stesso che prima mi faceva venire l’acquolina, ha iniziato a nausearmi.
E se puoi rinunciare al jamón serrano, allora puoi rinunciare a tutto il resto.
La parte oscura
Magari starai pensando che il peggio di questa scelta sia stata la categorica rinuncia alla carbonara, i cannelloni ripieni, la pizza würstel e patatine.
No. Affatto.
Ci sono infinite (e deliziose) alternative, che in nessun momento mi hanno fatto rimpiangere la decisione presa.
Il male, l’autentico pain in the ass sono i parenti.
E i ristoranti in cui ti portano.
Ma quindi cosa mangi
Per le ragioni spiegate in alto, mio padre (che si alimenta principalmente di cadav… emh, carne) era già da un po’ che mi chiedeva “ma insaddusu itta pappasa” ogni volta che tornavo in Sardegna.
Da che gli ho detto “sono vegetariana” il suo sistema è crashato.
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Mi fa la pasta in bianco con pomodori e olive.
Poi mi guarda e mi dice “ma solo quello mangi?”. E io rispondo “se hai un po’ di segale o mangime per canarini mi preparo un secondo”. Ma lui non acchiappa l’ironia veg e mi allunga il pane guttiau.
Va bene lo stesso.
Perché mio padre è mio padre.
Chi invece mi manda in bestia sono, nell’ordine:
familiari random, quelli che incontri alle riunioni generali di un qualche evento a cui sei formalmente costretta a partecipare (battesimi, comunioni o surrogati) e che NON POSSONO RESISTERE cioè proprio è una necessità fisiologica la battuta te la devono fare anche se l’hanno già fatta eccola di nuovo che arrivAAAH MA TU LO SAI CHE ANCHE LE VERDURE SOFFRONO???!
Sempre familiari che, dopo averti erudito circa il sistema nervoso dei vegetali (?), iniziano a raccontare di quuuuanto buona fosse quella carne di agnellino da latte mangiata alla sagra di paese. Mannaggia la miseria che tu non la mangi. (“C’avevano ancora i peli attaccati perché spellarli bene era impossibile, PICCOLI COM’ERANO!”). Chiaramente il circo si ripete ad ogni pietanza, “ah, sì, questo non lo mangi. Che-peccato. Ma neanche il prosciutto? E il tonno? E i gamberoni? Sicura?!”
I camerieri del ristorante taurino di turno che, dopo essere venuti a conoscenza del fatto che non mangerai animali, ti passano accanto con il vassoio (con sopra guance di maiale, coda di toro, o un qualche altro arto in casseruola) per affermare in tono sornione che “non sai cosa ti perdi”. (Wow, che constatazione brillante. Giuro che adesso che me l’hai detto ci ripenso. In effetti non ho mai mangiato carne prima, nel Fantabosco non ce ne davano, quindi no, non lo so, hai ragione).
I camerieri falsamente conciliatori che, non essendoci alcuna opzione veg nel menù (ps: in questi ristoranti ci finisco sempre e solo in eventi familiari, altrimenti li evito come la peste), ti suggeriscono un’alternativa che prevede l’utilizzo dei rimasugli per i contorni che hanno in cucina dai tempi della guerra civile. “Ti preparo un brodino?”. “Sono vegetariana, non una ricoverata al Virgen del Rocío”. “Ah, allora peperoni arrosto vanno bene?”. “…”
I catering dei matrimoni spagnoli che probabilmente scambiano la dicitura “vegetariano” con “ospite equino” e ti servono verdure tirate fuori dal vasetto cinque secondi prima: carote, broccoli e pannocchie, te le gettano su un piatto tutte insieme, ci buttano sopra tre scaglie di sale, un giro d’olio freddo e “su revuelto, señorita”.
Le persone che mentre si sbranano l’hamburger, la senape sulle labbra, affermano sputacchiando “ti ammiro, ma io non ce la farei”. (Almeno aspetta di ingoiare, suggerisco.)
Le vetrine dei ristoranti con i pezzi di carne appesa, illuminate la notte da riflettori elissoidali degni di un teatro lirico.
Gli individui “io amo gli animali”, quelli che si scattano la foto abbracciati al cavallo dopo una passeggiata sul lungo mare, (incredibile la potenzah della naturah, esperienzah consigliatissima!) e poi vanno in ristorante (#invited) e ti fanno la stories con su scritto robe come “sua maestà il maialetto”, con tanto di close-up sul codino arricciato. Ajò, fatecela.
Infine
Insomma, non sono qui per fare politica o convincerti a diventare vegetarianә (sono più che consapevole che deve essere un moto interiore a portartici, io stessa quando dieci anni fa conobbi la prima coppia veg, pensai che entrambi fossero degli assoluti invasati che si nutrivano di sole lenticchie) ma per:
solidarizzare con chi come me si trova a gestire battutine infelici e parenti molesti.
dare fiducia a chi ci vuole provare, e ricordare che ci sono sempre più opzioni anche fuori casa (sul serio, mai avuta nostalgia o ripensamenti. Persino il sushi veg se te lo fanno bene è top!)
rasserenare chi ancora crede che mangiare carne sia ESSENZIALE per vivere (ti serve solo integrare la B12, per il resto — e parla un’anemica — analisi ok). Cercati però qualcuno esperto in alimentazione vegetale, e fatti fare una dieta equilibrata.
Per il resto, posso solo dirti la mia: ne vale assolutamente la pena. 🌱
Molto bello quello che hai scritto! Io sono anni che provo a cambiare completamente approccio verso il vegetarianesimo ma purtroppo per abitudine e a volte pigrizia spesso ci ricasco! Consigli per attuare definitivamente questo cambiamento? Hai letture da consigliarmi ? Grazie 🙏🏻
I feel you!
Io vegana da due anni e anche per me è stato fondamentale lo stretto rapporto coi miei due gatti per prendere finalmente una decisione che covavo da anni (forse da sempre). Posso dire? Mai stata più felice di una scelta in vita mia! Quando posso evito tavolate coi parenti e, purtroppo, a volte anche con certi amici. E comunque, sono loro che non sanno cosa si perdono 😉