Da che sono entrata nel mondo del lavoro, una delle sfide personali più pervicaci si è rivelata essere il riuscire a trovare un compromesso valido tra libertà e stabilità.
Sono gialla (se ci clicchi sopra vedi che vuol dire), ergo una creativa, una che qualsiasi tipo di imposizione esterna vincolante la vive come una condanna a morte, e che ha una certa difficoltà a scendere a patti con routine e compiti ripetitivi.
Questo mi ha portato a voler diventare una freelance, e a costruirmi un lavoro su misura che si adattasse a quelle che sono le mie abilità.
Tuttavia, as always, non è (e non è mai stato) tutto rose e fiori.
Dopo esserci riuscita aprendo e chiudendo n progetti (quello più importante e remunerativo è stato @marcapersonale con annesso podcast #iomiproclamo, di cui ora puoi ascoltare la digievoluzione qui), sono comunque andata incontro a due dinamiche che francamente non avevo contemplato, presa com’ero dal fuggire alla velocità della luce dall’ufficio a tempo pieno:
la solitudine
l’instabilità finanziaria
Quando diventi una freelancer (o una solopreneur) non guadagni tutti i mesi una quantità fissa. Anche se chiaramente ci sono dei modi per garantirti degli introiti più o meno stabili, non sarà mai come avere uno stipendio, nel bene e nel male.
Nel bene perché magari un mese triplichi quello che avresti guadagnato in un contesto aziendale, nel male perché può succedere che i due mesi successivi (che in molti settori coincidono con quelli estivi) non fatturi una cippa o quasi.
Ecco, smetterla di ossessionarsi con questo e capire che non tutti i mesi sono uguali (e che i fondi per le vacanze e tredicesima/quattordicesima te le devi ricavare in autonomia dai mesi di buona), è senza dubbio un modo per viversela meglio.
Equilibrio vita/lavoro: la mia soluzione attuale
Ci lavoro costantemente al mio equilibrio vita/lavoro (pure perché le necessità/esigenze personali cambiano, e fossilizzarsi su una soluzione utile tre anni fa ma non oggi non è mai una buona idea), e voglio raccontarti come, almeno per il momento, ho trovato la quadra facendo convivere le realtà a seguire:
a)
(dove, oltre a tenere le fila di tutta la comunicazione, registrare video e podcast, offro personalmente sessioni di coaching e mentoring a professioniste - freelance o dipendenti aziendali - che vogliono costruirsi una carriera su misura).b) un nuovo cliente grosso (una multinazionale di glamping con base qui a Siviglia: mi occupo della parte di comunicazione digitale per Italia, Portogallo e Francia) con cui ho firmato un contratto di collaborazione a tempo indeterminato e che mi offre una fee mensile.
c) formazione, workshop e altri progetti sfusi, alcuni non remunerati (come il caso dei contenuti che creo sul mio canale Instagram personale o il dottorato) ma che contribuiscono a farmi sentire stimolata.
Mentre la carpa (a) mi permette di impiegare la mia parte coach (adoro fare orientamento professionale, il master che ho preso l’anno scorso si è rivelato in tal senso un ottimo investimento!), il cliente big e local (b) mi da stabilità economica, mi tiene attiva sul fronte comunicazione aziendale e al contempo risolve il problema della solitudine lavorativa, già che con il team abbiamo concordato che ci vedremo due mattine alla settimana in ufficio (tra l’altro la loro sede sta nel mio quartiere, quindi proprio botta di chiul): grazie a ciò finalmente ho una scusa per uscire dalla grotta beige e zafferano che mi sono costruita.
C invece aggiunge quel pizzico di dinamismo e varietà che mi serve per sentirmi arzilla, sul pezzo.
Chiaramente questo è ciò che fa per me, ognuno deve trovare la soluzione che più gli/le si confà.
Problemi di lavoro o issues di capoccia?
A me non è successo quello che raccontano in tanti che hanno lavorato per anni dalla propria dimora (“associavo casa al lavoro e avevo sempre l’ansia, mi sembrava di non staccare mai”), piuttosto direi che a una certa ero arrivata ad uno stadio di assoluta anarchia e isolamento.
Tra la chiusura del progetto principale e l'apertura del successivo ho lavorato in modo discontinuo, disorganizzato, poco efficace. Ma la mia indolenza non aveva niente a che vedere con il cosa, né con il dove (c’è stata anche la fase del ètuttacolpadiSiviglia), era più che altro un problema del chi: me medesima.
Se c’è un messaggio che vorrei riuscire a veicolare con questa newsletter è proprio questo: se hai problemi con te stessa, e dai la priorità al fuori piuttosto che al dentro, farai solo un gran casino.
Forse a questo argomento nello specifico dovrei dedicare una newsletter a parte, dove approfondire i seguenti punti:
cosa porta un individuo a sentirsi svogliato.
il grande problema frutto del disporre della motivazione necessaria per produrre solo quando (e se) si riceve validazione dal mondo esterno.
imparare ad aggiustare la rotta senza invertirla drasticamente e andare così in ipercompensazione.
Sì, ci torneremo.
La strada non tradizionale
Posso confermare, anche alla luce di questa analisi, che resto sicura del fatto che il percorso tradizionale (posto fisso 9/18) non faccia per me.
Nonostante per quasi un anno abbia pensato di tornarci (ero stremata dai problemi 1 e 2), ritengo che per me l’unica strada possibile (che comunque si snoda in centinaia di migliaia di sentieri percorribili) sia quella della libera professione.
L’ultimo episodio di carpa’tips (la digievoluzione di #iomiproclamo) l’ho dedicato proprio a rispondere alla domanda “la carriera da freelancer fa per me?”, in modo tale che se hai dei dubbi in merito tu possa sfruttare la mia esperienza per provare a fare un po’ di chiarezza.
Approfondiamo
Vita liquida di Bauman è il saggio perfetto per capire meglio perché ci sentiamo così instabili e soggettə a un ricalcolo costante.
Secondo la visione del sociologo ogni individuo pensa a sé, e a come soddisfare i propri desideri nel minor tempo possibile. In questo mondo liquido gli unici che riescono a sopravvivere sono coloro che sanno scomporsi e ricomporsi costantemente (per questo si parla di stato liquido, opposto di solidità e compattezza).
L’elite ibrida (che è come B. chiama la tipologia di persone che si sono adattate alla mutazione) è fatta da incoerenti per natura. Queste persone, le uniche che riescono a muoversi con facilità nella modernità liquida, sono esempio per il prossimo. O per meglio dire, il prossimo ammira il loro coraggio e la loro capacità di lasciare le cose sicure per l’incerto e l’avventura, e vorrebbe essere come loro. E qui nasce la frustrazione: chi non ci riesce crede di essere di per sé unə fallitə o unə codardə.
L’identità smette di essere un sinonimo di compattezza, coerenza, continuità, per trasformarsi in un istinto di non appartenenza, in mutevolezza, volatilità.
Il marketing stesso ci proibisce di vedere le cose in maniera diversa. Ci troviamo a bagnomaria nel desiderio, sguazziamo giornalmente nel sistema della ricompensa immediata.
Sentiamo di avere bisogno di stabilità, ma una volta ottenuta la viviamo come una prigione. Agogniamo libertà e flessibilità, ma senza sicurezze siamo deboli e in preda alle angustie dell’incertezza.
La soluzione? Bauman non la trova (tendenzialmente ‘sti grandi sociologi sviscerano, spolpano e sminuzzano per poi concludere dopo pagine e pagine di analisi con un “la situa è la seguente, vedete un po’ voi c'amm'a fà’” ripassandoci la patata bollente come se nulla fosse), però almeno leggendo inizi a sentirti come una sineddoche della tua generazione, anziché la particella di sodio dell’acqua Lete.
In conclusione, aggiungo un’ultima riflessione:
Se ci fossero più aziende attente ai bisogni del lavoratore, che garantiscano flessibilità, una buona remunerazione, possibilità di crescita, sviluppo professionale meritocratico e paritario, sarebbe davvero necessario dover cercare costantemente delle soluzioni alternative?
E soprattutto: qualcuno mi spiega perché, nonostante il nostro sistema gravi in grossa percentuale (qui in Spagna oltre il 30% del PIL lo producono los autónomos) sui liberi professionisti, sia fiscalmente parlando così difficile fare da sé?
Se qualcuno saprà rispondermi, ha tutta la mia attenzione.