Qualche giorno fa ho scritto nelle note di Substack:
Dopo averlo pubblicato ho iniziato a rimuginare sulla mia affermazione. E, da brava overthinker, tra i vari pensieri si è intrufolato anche questo:
Confessa, la tua in verità è solo frustrazione. Ti rode non riuscire più a cavare un ragno dal buco sul social che ha in qualche modo dato i natali alla tua attuale carriera professionale.
In parte sì, è vero.
Dopo tutti gli anni dedicati a creare un contenuto dietro l’altro, realizzare di non sapere più come alimentare una macchina che ha cambiato carburante quattro volte in cinque anni, è senz’altro sconfortante.
Tuttavia non so fino a che punto la colpa sia della piattaforma, e quanto invece una conseguenza della mia (esasperante) eterogeneità — che appunto non trova più spazio in un luogo sempre più succube di un’impietosa iper-produzione verticale.
Ho cambiato decine di volte approccio, pubblicato rubriche che duravano cinque puntate al massimo, archiviato massivamente, ricominciato una e un’altra volta.
E nel frattempo, Mark decideva di “aggiustare” l’algoritmo, fino a rendere quello che era il mio social preferito una sorta di copia fuxia della sua nemesi cinese.
LE METAMORFOSI
Quando ho iniziato a pubblicare con coscienza e “strategia” (virgoletto perché quello che reputavo strategico all’epoca era banalmente pubblicare più o meno con costanza senza avere un pubblico definito né degli obiettivi concreti) su Instagram, era il 2017 e il mio account si chiamava spaghetti con jamón (spaghetti ero io, jamón era marito, quasi sempre dietro le quinte. Alla fine ho cannibalizzato il canale, anche perché lui i social li odia, usa X per le notizie e YouTube per guardare gli short di gamer che commentano cose e esordiscono con “SABÍAS QUÉ…” e basta pure).
Ancora si condividevano foto e l’instalifegoal era avere un feed armonico, estetico, patinato.
I copy erano tendenzialmente corti, ma io con la mia logorrea non mi sono mai risparmiata di andare accapo nel primo commento.
Le stories non avevano filtri: le usavo prima per raccontare estemporaneamente le mie vicende (il lavoro in radio, l’addio alla Sardegna, il trasferimento a Madrid), poi per pubblicare mini racconti (as always mi sono stufata dopo un mese, nonostante quella modalità di narrazione si stesse rivelando un’idea di discreto successo. E vabbè, l’aggiungiamo alla lista dei piani mollati a metà in piena primavera) e infine per fare spiegoni di marketing e personal branding.
È così che mi sono costruita la mia community — eterogenea come me — che mi ha permesso poi di organizzare un crowdfunding a lieto fine per il mio primo romanzo, realizzare diversi workshop, e, durante il covid, dare visibilità a un progetto molto ambizioso di formazione online (#mitinroom, un accademia digitale in cui, grazie al supporto di altre favolose docenti, tra le quali
, Marialaura Gionfriddo, Stefania Cipriani e Laura Argiolas, abbiamo offerto oltre 10 corsi gratuiti, ciascuna sulla propria area di expertise).Quella del COVID era anche l’epoca di IGTV (dove pubblicai il primo episodio di #iomiproclamo — il podcast in cui spiegavo come crearsi una marca personale —capendo solo al terzo video/audio statico che se volevo farlo crescere toccava farlo slittare altrove) e delle dirette (ne organizzai a bizzeffe, adoravo quel formato. Comprai anche una mega ring-light, da allora nell’astuccio, stipata in fondo all’armadio fino a data da destinarsi).
Dopo (o durante? Non ricordo) sono apparsi i caroselli, anche quelli sfruttati ampiamente per esprimere concetti più articolati (odiavo il fatto di dover creare delle grafiche ad hoc su Canva, ma si trattava ancora di un’attività gestibile).
A partire dal 2022 non ho più capito.
Era tutto video. Scrolling selvaggio. La reach organica di post e stories si era dimezzata, per poi diventare, negli anni successivi, ancora più bassa.
Il reel, l’imperante contenuto facilmente digeribile anche dal pubblico più distratto, aveva preso il sopravvento sul resto.
Oggi, i profili che crescono organicamente (quindi senza il boost degli adv o del sostegno di account più grossi) sono solo quelli che pubblicano video a palla rivolti ad un pubblico nuovo, o che hanno visibilità su altre piattaforme.
Il concetto di fidelizzazione ha lasciato posto alla velocità, a una awareness sempre più volatile, volubile.
A quel punto, dopo qualche timido tentativo, non ce l’ho fatta più. Pure perché per mettere in piedi un video di 90 secondi ci impiegavo, a seconda del topic e dei materiali da radunare, una mattina intera.
Spazio alla frustrazione
Se c’è qualcosa che temo da che mi è capitato di dare lezioni ai ventenni alla business school di Siviglia, è il diventare obsoleta. Perder el brillo. Essere la boomer della stanza.
Per questo, prima di issare la bandiera Insta fa schifo, mi sono chiesta cosa potessi fare per migliorare le mie competenze.
Solo dopo però mi sono domandata che interesse avessi nel farlo.
Io non voglio essere una content creator.
Io voglio comunicare.
Arrivare al mio pubblico nel migliore dei modi, senza framing superflui e spezzettamenti ingiustificati.
E se la piattaforma che ho amato non me lo permette più come un tempo, beh, è tempo di cercare nuovi lidi, coltivare altre parcelle.
Un po’ come le relazioni che non funzionano più, sto progressivamente mollando Ig per riversare la mia verbosità in un canale che mi permette di sfruttarla, che non mi impone limiti, che è multidimensionale (qui sopra posso mettere foto, video, audio, link, tutto!) e che, se l’utente è d’accordo, mi consente di arrivare direttamente nella sua casella mail e farmi leggere abitualmente.

Ma scendiamo nei dettagli:
10 motivi per cui Insta non mi piace più come una volta
Ti obbliga alla verticalizzazione assoluta. Già dal nome stesso di questa newsletter — cronache di una poliedrica — si evince che non sono né sarò mai una che si concentra su un argomento ebbasta (ci sto scrivendo un libro, sulla creatività e la visione trasversale delle cose, direi proprio che me encuentro en la otra acera), e nonostante i miei tentativi di adattamento, io a pubblicare un solo tipo di contenuto nel mio canale personale non ce la faccio proprio. O almeno, non ce l’ho fatta fino ad ora (non mi chiudo del tutto le porte, sia mai che mi torni voglia di riprovarci in futuro).
Video su video. Tra tutti i formati possibili, il video è sempre quello che mi ha generato più problemi. Il podcast? Attacchi un microfono e parli. La newsletter? Apri il computer e scrivi.
Ma i video, AH, i video.
I reel (a meno che non ti basti ottenere un risultato super artigianale) richiedono le giuste inquadrature, luci, montaggio, sottotitolaggio, color, un soggetto apparecchiato e ben illuminato. Insomma, uno sbatti estremo che francamente se posso me lo evito.
Di tutti i profili che seguo (oltre 700) mi vengono proposti i contenuti di massimo una trentina di persone. Il fatto che sia la piattaforma a scegliere per me il palinsesto mi fa venire l’orticaria.
Appiattimento progressivo. Da che esistono i reel e le musiche, moltə sfruttano le tendenze e magari ti pubblicano anche 4 o 5 video con la stessa colonna sonora. L’idea non è più creare un contenuto di valore per la community, ma cercare di essere visibile, sfruttando quanto si conosce circa l’entrare nelle grazie dell’algoritmo.
La pressione della crescita. Ovunque ti giri, c’è qualcuno che ti spiega come fare ad acquisire nuovi followers (cosa che sta tristemente iniziando ad accadere anche qui): e pubblica 3 reel al giorno, e sii presente nelle stories quotidianamente, e interagisci nei DM, e rispondi ai commenti entro il minuto e aiut ma lasciatemi vivereeee!!!1!!1!!
L’agglutinamento per la sopravvivenza. Molte influencer anche di piccole dimensioni hanno iniziato già da qualche anno a fare squadra per crescereh con e in entourage. Alla fine ti ritrovi a seguire cinque persone che fanno tutte gli stessi contenuti taggandosi l’una con l’altra un giorno sì e l’altro pure. Un supporto collettivo molto nobile, ma a spese della community, che deve sorbirsi il prodotto di un clan, anziché quello elaborato dal singolo individuo.
Il dover ribadire #nofilter ogni tre per due. L’ansia dell’essere REALI. La retorica del “io sono così anche offline”. L’autenticità che deve emergere a tutti i costi nei pochi secondi disponibili. Raga, mettiamoci l’anima in pace. Nessuno è AUTENTICO online. Puoi essere al massimo il più trasparente possibile. Ma una tua versione social non sarà mai quella della tua quotidianità. E capita che quelle che celebrano la propria intellegibile onestà in fibra 100% pura sincerità poi sono delle mùtziga surda (dal sardo: un individuo che fa il finto tonto, una persona molto silenziosa ma allo stesso tempo falsa e tendenzialmente subdola) che manipolano la percezione della realtà più di chiunque altro.
Gli #adv a profusione. Ci arrivo, è ovvio, se sei un influencer dovrai pur mangiare. Ma questa costante presenza di esperienze sponsorizzate mi fa sentire come Hansel (o Gretel) nella casetta di leccornie. Mangia, mangia, mangia, che poi io mangio te. Per non parlare di chi sponsorizza ma non lo dice, o lo cela alla bene e meglio fra gli hashtag.
La sfilza inarrestabile di how to. Quando ho iniziato, eravamo in una manciata a spiegare come fare cose. Tipo, come creare un piano editoriale, come fare un business plan, come... Adesso siamo già alla copia della copia della copia della copia di chi vende corsi su come sfruttare professionalmente Instagram che mio padre al mercato comprò. (Tra parentesi: mi sorprende che ci siano ancora persone disposte ad investire denaro per imparare ad applicare delle strategie basate su un contesto che è svanito da un lustro. Ve lo dico chiaro e tondo: quelle strategie che hanno funzionato ieri non sortiranno MAI gli stessi effetti oggi. Se vi interessa in un’altra letterina vi spiego il perché. Intanto, tenete i vostri soldi al sicuro dall’ennesimo funnel di conversione).
L’incertezza costante. Ogni volta che stai capendo l’andazzo del nuovo giro di giostra, Mark ti cambia le carte in tavola. Metti le cover carine agli album in evidenza? Te li leva. Impari ad attirare l’attenzione dei tuoi fidi followers con dei contenuti ad hoc? L’algoritmo sottopone il contenuto a perfetti sconosciuti che non sanno chi sei e che quindi scartano il contenuto perché a priori poco appealing. Devi raggiungere i 10k per avere lo swipe? Si leva il limite ma ogni volta che metti un link che invia fuori dalla piattaforma, le views scendono drasticamente.
Insomma, forse la mia è una lagna da millenial cascarrabias (espressione spagnola decisamente onomatopeica per dire che ti arrabbi un po’ troppo facilmente), ma il succo del discorso che spero sia emerso comunque è questo: se mi vedrete più spesso da queste parti e meno in Zuckerberlandia, il motivo non è uno ma sono 10.
Detto ciò, es de bien nacido ser agradecido: Instagram mi ha dato il mio primo palco democratico, concedendomi di raggiungere moltə di voi organicamente, ovvero senza dover mai spendere mezzo euro in pubblicità. Mi ha permesso di fare amicizia (tanto per dirne una, con
, la mia buddy a Siviglia, ci siamo conosciute su Ig), di essere ascoltata, capita o messa in discussione (quasi sempre con gentilezza e buoni propositi).Questo è forse uno dei motivi per cui non chiuderò il mio profilo, né prenderò alcuna decisione drastica alla sparisco, addio, questo è il mio ultimo post. L’idea e conservarlo e sfruttarlo appunto per quello che è: una vetrina sempre più opaca e impegnativa da allestire.
Detto ciò, lunga vita agli slow media.
E a chi, ancora, si ritaglia il tempo per leggere.
Qualcuno doveva dirlo. Qualcuno doveva dirlo bene, come fai tu.
In queste ultimi mesi questa sensazione mi ha colpita anche come fruitrice.
Devo ancora costruire il mio sistema digitale, da IG non riesco ad iniziare, ma attorno a me tutti ti dicono che se non cominci da IG sei finita. Io bloccata, limbo, buio attorno a me.
Ma sento di aggiungere anche un 11mo motivo: le scelte politiche (e comunicative di conseguenza) dell'ultim'ora di Markone.
Far West in vista in quel del Quadratino Fucsia...
Io mi sto lanciando nell’avventura dei video, per una serie di motivi professionali ma anche personali che racconterò. E mi diverto pure.
Tuttavia li metterò su YouTube, dove quantomeno un contenuto non diventa obsoleto dopo 24 ore.
Detto questo, non se ne può più di avere solo video ovunque. Il bello del mondo e della comunicazione è l’eterogeneità: uno spazio dedicato ai video, uno al visual, uno alla scrittura… a me questa suddivisione piaceva tantissimo e impediva l’appiattimento generale.
Ora invece impera la dittatura dei reel, dei video brevi che contribuiscono a sbriciolare sempre di più una soglia dell’attenzione collettiva in via di estinzione.
Proprio perché amo tutti i tipi di contenuti, video compresi, ma lunghi, auspico che passi prima o poi questa bulimia e si torni a piattaforme più differenziate.
Vedremo!